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Rabbia, conflitti e la loro gestione

Uscire dalla rabbia, gestire il conflitto è quindi la prospettiva che ci apre nuovi scenari.
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Uscire dalla rabbia, gestire il conflitto è quindi la prospettiva pedagogica che ci apre nuovi scenari. Il corso "Gestire la rabbia e stare nei conflitti" è un'esperienza unica per vivere meglio

Come gestire la rabbia?

La struttura della rabbia è l’emozione, la struttura del conflitto è la relazione.

Non c’è conflitto senza un’altra persona, ma la rabbia può esserci a prescindere da un’altra persona, ossia a prescindere da una struttura relazionale.

Ci si può arrabbiare con sé stessi.
Ci si può arrabbiare scagliandosi contro un oggetto, digrignando i denti. È qualcosa che nasce dall’interno e può restare in questa dimensione sostanzialmente individuale. 

Nel caso del conflitto, la sua natura stessa implica la presenza di altre persone, implica una dimensione relazionale. Anche quando parliamo di conflitto intrapersonale comunque è sempre una proiezione interiore di dimensioni esterne che hanno una propensione e una vocazione relazionale.

La rabbia, al contrario, essendo un’emozione, può strutturarsi lungo un asse che è sostanzialmente e puramente individuale.

Anche se il soggetto arrabbiato si scaglia contro qualcuno, la sua è un’azione più emotiva che relazionale, irreversibile più che dialettica, unidirezionale più che reciproca. 

L’elemento interessante di questa distinzione è quello che ci consente di definire la rabbia come un’esperienza assolutamente aconflittuale.

Apparentemente presenta dei contenuti di conflittualità, di relazionalità, ma sostanzialmente è centrata su una forma di occlusione del rapporto.

La rabbia di per sé non implica l’entrare in relazione

A volte la rabbia vuole eliminare la relazione.
Attaccando bruscamente l’altro si esprime la propria intemperanza e la propria indisponibilità a ogni forma di contatto, con frasi anche significative: “Non mi rompere, lasciami stare, sei uno spaccaballe, sei incredibilmente noioso”, e così via. Un attacco brusco che rompe ogni forma di vicinanza.

La rabbia tende a non vedere l’altro o l’altra, presenta delle caratteristiche tendenzialmente autistiche.
È spesso una forma di conservazione e di preservazione anche molto letterale di sé stessi, è una misura difensiva votata a precludere la relazione o l’eventuale relazione.

Da questo punto di vista è assai poco simile al conflitto: eventualmente è più simile alla violenza, nei suoi aspetti di imprevedibilità, di attacco, di minaccia, di esplosione.
Difatti è vero che in molte occasioni dalla rabbia si passa alla violenza, bypassando l’area del conflitto, senza comunque pensare che si tratti di un percorso, più o meno lineare.

Per alcuni versi la rabbia assomiglia molto anche alla lamentela, cioè a qualcosa che non costruisce una relazione ma piuttosto rappresenta una forma di pura e semplice esternazione, di narcisismo, di autocompiacimento, di egocentrismo, tutte forme che difficilmente possono essere utili a trovare un raccordo relazionale.

rabbia e conflitti

È possibile educare la rabbia?

Normalmente e tradizionalmente le indicazioni pedagogiche o psicopedagogiche si orientano in due modi.

Il primo approccio dice che la rabbia va accettata: è un modo di conoscere sé stessi, “non bisogna avere sensi di colpa nei confronti della propria rabbia”, “scarichiamo la rabbia”, etc. 

Il secondo approccio afferma che la rabbia è comunque un’energia positiva, che si può quindi trasformare, incanalare e reinvestire in attività più utili. 

Queste strategie a volte appaiono piuttosto deboli nella loro natura pratica.

È bello dire che arrabbiarsi fa bene, che occorre sapersi scaricare, che la rabbia libera una bella energia che poi possiamo utilizzare in altre circostanze, ma la realtà dei fatti è che proprio in quanto tale la rabbia appare un elemento turbativo di natura temporalesca, vulcanica, e come tale scarsamente controllabile. Sono posizioni molto vicine alla logica dei “buoni sentimenti” e delle buone esortazioni, piuttosto che a interventi concretamente efficaci. 

Se noi riusciamo, da un punto di vista pedagogico, ad aiutare i bambini e le bambine “arrabbiati” a capire che si può litigare, che è un’esperienza legittima, che la contrarietà fa parte delle relazioni, che vivere la contrarietà non vuol dire perdere la relazione o perdere sé stessi, ma al contrario significa provarci, sfidare, mettersi in gioco, tentare di scoprire qualcosa di nuovo allora realizziamo un’educazione non più basata sui buoni sentimenti o sull’idea “prendiamo la rabbia, addomestichiamola e facciamone qualcos’altro”, ma sulla necessità di spostare l’attenzione dalla rabbia al conflitto, tenendo conto che conflitto vuol dire relazione, e che pertanto il conflitto può essere addomesticato, cosa ben più complessa e problematica a farsi con la rabbia.

Solitamente il litigio non viene visto come un’esperienza normale, fisiologica, ma come un attentato alla tranquillità del gruppo e delle relazioni.

Il bambino furioso denota un disagio consistente, ma il bambino che litiga, che entra nella gestione della contrarietà con gli altri, la accetta e accetta che gli altri esistano.

Il bambino che litiga è da questo punto di vista un bambino sano: un bambino che sfida sé stesso nella relazione con gli altri, un bambino che non vuole chiudersi.

Uscire dalla rabbia e gestire il conflitto è quindi la prospettiva pedagogica che ci apre nuovi scenari e che ci consente di incontrare i bambini su un terreno che può aprire nuovi spazi alla convivenza e all’apprendimento della convivenza stessa. 


Estratto dall’articolo di Daniele Novara Rabbia, conflitti e la loro gestione educativa, pubblicato sulla rivista Conflitti, numero 3/2003.

Uscire dalla rabbia, gestire il conflitto è quindi la prospettiva pedagogica che ci apre nuovi scenari. Il corso "Gestire la rabbia e stare nei conflitti" è un'esperienza unica per vivere meglio

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