La violenza psicologica e le sue conseguenze

Uno degli antidoti alla violenza psicologica è quello di saper distinguere una buona comunicazione da una comunicazione disfunzionale.
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Uno degli antidoti alla violenza psicologica è quello di saper distinguere una buona comunicazione da una comunicazione disfunzionale.

È più facile difendersi dagli attacchi espliciti che da quelli impliciti o subdoli, dalla violenza psicologica.
Prendiamo il caso di mobbing sul lavoro. Una sua forma esplicita consiste nel rimproverare alla persona presa di mira la sua mancanza di preparazione, il suo non essere all’altezza del compito assegnatole, anche se in realtà lo è. Un modo implicito è non metterla al corrente di decisioni che altri conoscono, di scelte che altri hanno già compiuto, senza informarla; oppure assegnare compiti dequalificanti così da sottolineare in modo indiretto la sua inesperienza, pertanto la sua esclusione da determinati ruoli.

Risulta più facile districarsi dalle forme esplicite che da quelle implicite che spesso rientrano nell’ambito di violenza psicologica.

Se nel primo caso la persona oggetto di mobbing può reagire in modi diretti contestando e spiegando il proprio punto di vista -, negli altri due casi, poiché non ha ben chiaro che cosa stia accadendo alle sue spalle, non sa come comportarsi. Si instaura così un circolo vizioso che può minare la capacità di reagire del soggetto preso di mira. C’è anche il rischio che man mano si sviluppino l’atteggiamento e la mentalità del capro espiatorio, il che diventa una sorta di conferma per coloro che lo mobbizzano.

La violenza psicologica nelle relazioni familiari

In ambito domestico le violenze psicologiche possono assumere forme diverse: da un eccesso di controllo («Sono io che decido quando puoi uscire di casa») alla manipolazione della comunicazione; dalla svalutazione del familiare preso di mira al suo isolamento.

Si può anche sminuirlo non prendendo mai in considerazione le sue proposte, i suoi interventi, le sue idee; oppure ridicolizzandolo di fronte ad amici e parenti, mettendo continuamente in dubbio la sua capacità di fare o capire, ricattandolo sul piano emotivo («Mi fai ammalare», «Se fai di testa tua non ti parlo più», «Non ti voglio più bene»). Trattandosi di rapporti affettivi coinvolgenti può essere difficile per la vittima allontanarsi dalla relazione e chiedere aiuto.

La comunicazione disfunzionale e l’esempio di Watzlawick

In un classico testo di Watzlawick, Beavin e Jackson dal titolo Pragmatica della comunicazione umana (Astrolabio Ed., 1971) in cui gli autori indicano i termini di una buona comunicazione e analizzano le caratteristiche di quelle disfunzionali, un figlio lamenta con queste parole l’impenetrabilità della madre alle sue opinioni:

Ogni volta che non sono d’accordo con mia madre sembra che lei mi dica “Oh so quello che stai dicendo ad alta voce, ma so che non è quello che veramente pensi dentro di te” e poi comincia a dimenticare quello che ho appena detto» (p. 84).

La madre insiste che il figlio creda quello che lei sente che lui “dovrebbe” credere. A sua volta il figlio sente di scontrarsi con un muro di vetro invisibile e compatto. Una sensazione che si risolve in un senso costante di mistificazione che porta il ragazzo allo sgomento.


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Reazioni alla violenza psicologica e manipolazione

La mancanza di ascolto e la pretesa di leggere nelle mente dell’interlocutore attribuendogli le proprie opinioni, intenzioni e desideri rendono impossibile un dialogo autentico e producono reazioni diverse, che variano da individuo a individuo in base anche all’età e alla capacità di reagire a queste forme subdole di manipolazione e di violenza psicologica.

C’è chi riesce a controbattere, non accettando le valutazioni o definizioni che vengono date di lei/lui, in forme esplicite o implicite. Magari grazie anche all’aiuto di un familiare che, vedendo la vittima in difficoltà solidarizza con lei.

Le conseguenze e la dipendenza emotiva

Al contrario, c’è chi accetta le limitazioni, il controllo, le disconferme, le valutazioni e i giudizi sminuenti di chi cerca di modellarlo/la o sottometterlo/la. La vittima impara così a evitare tutte le occasioni che possono metterla in difficoltà e man mano a chiudersi in sé stessa, tanto da poter poi essere accusata di autoemarginazione o di mancanza di empatia.

Depressione, ansia, calo di autostima sono spesso le conseguenze di queste forme di abuso emotivo e di violenza psicologica che, se continuative, generano nella persona che le subisce uno stato di insicurezza e di tensione. Paradossalmente, nel tempo può crearsi una dipendenza emotiva della vittima nei confronti del suo persecutore: isolata, insicura e ripiegata su sé stessa è proprio in lui che continua a cercare, non solo protezione, ma anche quell’approvazione e quel riconoscimento che può restituirle un po’ di stima di sé.

Ecco, dunque, l’utilità di saper distinguere una buona comunicazione da una comunicazione disfunzionale dove parole ed emozioni, svalutazioni, mistificazioni e impenetrabilità creano una matassa che nel tempo diventa sempre più difficile da districare.

Testo di Anna Oliverio Ferraris pubblicato sull’ultimo numero di “Conflitti
14 aprile 2025

Uno degli antidoti alla violenza psicologica è quello di saper distinguere una buona comunicazione da una comunicazione disfunzionale.

Uno degli antidoti alla violenza psicologica è quello di saper distinguere una buona comunicazione da una comunicazione disfunzionale.

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