Pensate che la competizione a scuola sia una cosa sana?
La scuola è ancora il posto dove i bambini e le bambine, i ragazzi e le ragazze stanno tanto tempo, fanno cose belle, investono energie e desideri. Credo che sia fondamentale capire che ci troviamo in una situazione di emergenza ma che ne possiamo uscire, che possiamo fare un lavoro importante di ristrutturazione e rifondazione della scuola. Bisogna farlo in fretta.
- Da dove nasce la competizione scolastica
- La competizione orizzontale tra ragazzi
- La competizione con gli adulti
- Il modello imposto dall’esterno
- Il tempo
Da dove nasce la competizione a scuola
Anni fa uscì un bellissimo libro di Eric Dodds, “I greci e l’irrazionale” , sulla cultura greca che veniva presentata come la cultura della vergogna: l’eroe che perde e viene sconfitto si vergogna di fronte ai suoi commilitoni.
Quando andai in Giappone per un viaggio di ricerca, ne ebbi la chiara dimostrazione: «Hai fatto male il compito di lingua giapponese? Chiedi scusa ai tuoi compagni». Questi ragazzini si devono mettere in piedi e dire: «Chiedo scusa per aver disonorato la mia classe nella gara di ideogrammi giapponesi». Il concetto è legato alla cultura del post-fordismo, ovvero alla cultura della vergogna nelle aziende (impiegati, anche manager, si mettono in mezzo al cerchio e chiedono scusa per aver causato una perdita di milioni di yen con i propri errori sul lavoro).
Ebbene, questa cultura della vergogna è arrivata nelle nostre scuole e lo vedo ogni giorno grazie ai tanti progetti che seguo (dalla primaria all’università). In una seconda media un giorno ho chiesto: «Ragazzi, quando voi prendete un 4, che cosa sentite? Perché vi dispiace?», e un ragazzino ha risposto: «Per l’insegnante… un po’. A casa… mi sgridano se rompo un vetro e mi sgridano se prendo un 4, poco cambia. Mi dispiace perché mi vergogno di fronte ai miei compagni».
È inaccettabile che uno studente, invece di dire «I miei compagni mi confortano, mi abbracciano, mi dicono “Ma dai…” oppure “È un’ingiustizia, con quel prof lo sai che è così”», si ritrovi a rispondere «Sento vergogna». Questo è il clima che è stato creato nella nostra scuola: doversi vergognare di prendere un’insufficienza quando invece qualunque teoria pedagogica sostiene che l’errore serve per migliorare. E invece no: te ne devi vergognare, che la cosa più antipedagogica del mondo. Oltretutto di fronte al tuo compagno.
Prima forma di competizione a scuola: orizzontale tra ragazzi
La considero la più terribile perché crea quelle situazioni per cui il più bravo della classe non invita il compagno a casa sua a fare i compiti perché potrebbe prendere un voto più alto. Trovo ragazzi che devono per forza tenere la media alta perché, se in terza prendi un 5, poi l’algoritmo non ti calcola il 100 all’università. E senza il 100 non entri nei corsi di laurea…
E poi si chiedono perché i ragazzi sono così tanto sotto pressione, trovando come unica risposta: «Perché sono generazioni fragili». Quindi mandiamoli dallo psichiatra e curiamoli con le medicine. Ci rendiamo conto del delirio che sta crescendo sempre di più nelle nostre scuole? Il messaggio è: «Devi dare il massimo, ma il massimo rispetto al tuo compagno, perché la scuola è competizione e gara».
Insegno a Medicina dove i ragazzi letteralmente impazziscono nel tentativo di prendere tutti 30, se non 30 e lode, perché vogliono entrare in quella determinata specializzazione in cui il professore dice: «Voglio solo quelli con 30 e 30 e lode». E tutto questo scende impregnando come una macchia d’olio anche i livelli scolastici frequentati da bambini più piccoli. Lasciamo la competizione allo sport. Lasciamo stare la scuola e i ragazzi.

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Seconda forma di competizione a scuola: con gli adulti.
Alle mie lezioni universitarie invito i ragazzi delle scuole superiori perché possano farsi un’idea. Si tratta di lezioni molto interattive in cui portano il loro contributo.
Durante una lezione sull’elaborazione dei lutti nella vita, ho chiesto a un ragazzo di V liceo che stava seguendo un progetto con me a Medicina: «Tu fra due mesi avrai la maturità. Cosa ti mancherà del tuo liceo?». Ragazzo intelligentissimo e preparatissimo, un grande comunicatore, rappresentante di classe e di istituto, ha dato l’anima per il suo liceo, mi rivela: «Mi mancherà la comunità studentesca perché noi abbiamo un nemico comune: la scuola».
Siccome è la scuola di mio figlio (che è in quarta), tornato a casa gli ho riferito quanto accaduto. E mio figlio mi ha risposto: «Papà, ma io sono quattro anni che te lo dico». Questo è ciò che abbiamo creato: l’adulto è il nemico.
E spesso i ragazzi non trovano un senso in quello che viene chiesto loro di fare. Non dicono: «Sei mio nemico perché sei severo, o mi rimproveri». Ma «Non hanno senso le cose che mi fai fare». La scuola diventa quindi una sorta di nemico di serie B. Questo secondo livello di competizione non rappresenta la contrapposizione tipica dell’adolescente con l’adulto. Diventa proprio un «Se posso fregarlo, lo frego».
Una volta, in una terza media, mi è venuta l’idea di fare un test che ho poi riproposto dalla quinta elementare fino ai miei studenti universitari.
«Siamo alle superiori. Maggio. Ultimo compito in classe di una materia x. Sulla pagella avete tutte sufficienze, tranne questo 5 ½ che equivale a un potenziale debito a settembre. Non avete più possibilità di recuperare. Il professore vi ha detto che, se prendete 6, non vi dà il debito, ma che, se prendete meno, non ha alternative. Avete studiato, siete preparati, ma, una volta che vi trovate davanti al foglio, vi rendete conto che non ce la fate. Avete troppe cose arretrate e quindi sale l’ansia del debito, di doverlo dire ai vostri genitori, di dover passare l’estate a studiare. Però avete il libro sotto al banco e potreste copiare. Copiare parecchio. Ma il professore è non vedente. E il primo giorno di scuola vi ha detto: “Ragazzi, io sono non vedente. Non metterò controlli, mi fido di voi. Facciamo un patto: voi non approfitterete della mia disabilità e lavoreremo tra persone serie”. Copiate o no?.
Dalla quinta elementare a studenti più grandi, il 95% copia e lo ammette con argomentazioni del tipo: «Io copio sempre, cieco o no per me non è un problema. Niente di personale»; oppure: «Sia chiaro che se lui deve attraversare la strada, io lo aiuto perché io il cieco lo rispetto, ma se è cieco il professore copio». «Copio, ma alla fine del ciclo degli anni, gli chiedo scusa» e anche: «Sarei ipocrita a dire che non copio perché è cieco». Qualcuno si spinge oltre: «Se è cieco, non doveva fare il professore».
L’aspetto che più mi ha colpito è la naturalezza delle loro argomentazioni. Il 5% che afferma di non copiare è perché non lo fa mai. Ho avuto la sciagurata idea di dirlo ai miei figli che sono molto interessati al mio lavoro. Mia figlia, la più piccola, mi ha guardato e mi ha detto: «Papà, ma tu vai in giro a chiedere queste cose? Ma è ovvio che copiamo!». Al mio «Perché?», la risposta è stata: «Ma perché è una guerra, papà. Noi combattiamo contro di voi… e guarda che noi vinceremo sempre». Al di là dell’aspetto simpatico della situazione, questo esempio deve farci riflettere.
La terza forma di competizione a scuola: il modello imposto dall’esterno
Mi riferisco a un modello di bravo alunno: noi insegnanti abbiamo deciso chi è il bravo alunno di terza media e tu ti ci devi avvicinare il più possibile, non devi sgarrare e provare strade laterali. Questo succede anche nel mondo del lavoro: un ambito della vita in continuo cambiamento, eppure si è stabilito un modello imposto dall’esterno e tu ti devi adeguare, se sei diverso dobbiamo riassestarti.
Si tratta di una competizione verso un modello finale difficile da comprendere.
Nei miei incontri con gli studenti universitari spiego che il mio esame si trova al l’interno di un percorso formativo e che serve per la loro professione futura. Ribadisco che, se chiedo determinati argomenti, vi sono dei motivi precisi, ma perché lo scopo è la loro formazione. Mi trovo spiazzato quando i ragazzi mi guardano e mi dicono:
«Ma professore, non lo fa quasi nessuno dei suoi colleghi. Bisogna studiare un certo libro perché l’ha scritto il professore».
Quarta forma di competizione a scuola: il tempo
Lo ritengo quello più angosciante. Pensiamo alla campanella: da dove arriva? Niente di meno che dal taylorismo, ovvero dalla divisione scientifica del lavoro.
Sorrido quando sento dire: «Dobbiamo appassionare i ragazzi alla storia». E fin qui non ci sarebbe nulla di strano… Ma «Devi appassionarti il lunedì dalle 10.00 alle 12.00 e il mercoledì dalle 8.00 alle 9.00, perché poi alle 9.00 devi appassionarti alla matematica… E alle 11.00 all’inglese…». Come se noi stasera andassimo a casa e decidessimo di guardare un film, ma dopo un’ora dobbiamo spegnere la TV per leggere un libro di poesie e dopo un’ora chiudere il libro per ascoltare una sinfonia di Beethoven. Nessuno di noi fa così. Allora perché lo facciamo fare ai nostri ragazzi e lo riteniamo normale? Perché pretendiamo da loro cose che noi non facciamo quando si tratta di appassionarci?
Mia figlia un giorno torna a casa, all’epoca era in terza media, Giornata della Memoria e mi dice: «Papà, abbiamo visto Schindler’s List», dico: «Accidenti, vuoi che ne parliamo?». «No perché siccome la professoressa non ha le ore, lo vediamo in tre lunedì diversi». Ma non farlo vedere se non hai le ore. A parte il fatto che per Schindler’s List devi prevedere un po’ di preparazione, il tempo del film che dura quasi tre ore, una mezz’ora in cui i ragazzi giocano – perché stiamo parlando di un film pesante e quindi occorre un tempo per lasciarli tranquilli – e un’oretta in cui si può parlarne. I conti sono presto fatti: servono almeno cinque ore. L’insegnante di turno solitamente si giustifica dicendo di dover chiedere le ore alla collega dell’ora successiva.
È proprio questo il problema. Il tempo è peggio delle dodici Tavole portate giù da Mosè dal Sinai:
l’orario non si tocca!!! L’orario decide. Sul piano dell’autonomia scolastica, è uno strumento, va deciso insieme, sperimentato.
Testo tratto dall’intervento di Raffaele Mantegazza durante il nostro convegno “La scuola non è una gara“
24 aprile 2025