Il pedagogista Daniele Novara lancia un allarme con il suo ultimo libro “I bambini sono sempre gli ultimi. Come le istituzioni si stanno dimenticando del nostro futuro” (BUR, Saggi Rizzoli 2020).
Una constatazione così preoccupante avrebbe dovuto innescare un dibattito tra politici, amministratori ed educatori siano essi insegnanti o genitori. Invece non ha trovato l’attenzione che merita, a conferma che dei bambini ce ne occupiamo poco.
Li colmiamo di premure, di apprensioni e di oggetti superflui senza amarli davvero, se amare significa comprendere i desideri dell’altro, aiutarlo a realizzare le sue risorse e renderlo, per quanto possibile, felice.
In questi tempi di pandemia li abbiamo guardati con sospetto come se, nonostante mille smentite medico-scientifiche, potessero contagiarci ed essere contagiati, se ogni interazione tra adulti e non adulti fosse da evitare per il bene di tutti. Gli unici contatti approvati sono stati quelli tecnologici a distanza: il cellulare, Skype, Facebook, le foto, i filmati amatoriali.
Ma i bambini comunicano col corpo ancor prima che con i simboli. La prima identità è corporea e come tale vuole essere riconosciuta, innanzitutto consentendo di esprimersi nell’attività infantile per eccellenza: il gioco. Ma da tempo il gioco è amministrato dagli adulti, prima di tutto con una serie di divieti.
Eppure, come ho scritto non ricordo dove e quando: “Tra le cose di cui i bambini sentono principalmente il bisogno vi sono quelle che non si comprano, come l’aria, la terra, l’acqua, l’erba, le piante, gli animali. Ben presto le conoscono attraverso la televisione, i libri, il cinema, sanno nominarle persino in termini scientifici, disegnarle, classificarle, ma tutto finisce lì.
Se impariamo a osservare i comportamenti dei più piccoli, ci accorgiamo ben presto che le loro esigenze sono altre: non vedono l’ora di calpestare le aiuole, immergere le scarpe nelle pozzanghere, lanciare i sassi, cogliere fiori e frutti, salire sugli alberi, tirare la coda al gatto, inseguire i piccioni, osservare le formiche”. Invece sono convinti che i polli nascano nei supermercati e che la calzatura più adeguata siano le pantofole.
Per proteggere la loro incolumità li obblighiamo a evitare ogni rischio, con il risultato di essere la prima generazione a non conoscere le ginocchia sbucciate.
Col sopraggiungere dell’emergenza li abbiamo sequestrati nelle case, in aule di massima sorveglianza, in piscine e palestre surriscaldate, mentre consentiamo ai cani di uscire, correre e saltare nei giardini pubblici, nei parchi giochi e nelle strade.
Una vignetta, tra quelle disegnate da Barbara Petracchi nel libro di Daniele Novara, suggerisce di travestirli da cagnolini.
Si tratta di una condizione che il lockdown ha esasperato ma che inizia cinquant’anni fa nel disinteresse generale.
Possiamo fare qualcosa per modificarla? Credo di sì se consideriamo questa pandemia, non solo una sventura ma anche una risorsa.
Le privazioni che ci ha imposto sono state durissime ma hanno consentito a tutti, soprattutto ai bambini e agli adolescenti, di riconoscere, in una società dello spreco e dell’eccesso, valori essenziali quali la famiglia e la scuola. Chi si sarebbe mai aspettato che piccoli e grandi esprimessero la voglia di riprendere un’attività scolastica spesso oggetto di capricci e lamentele?
Come scrive Emily Dickinson: “L’acqua, la insegna la sete”: è la mancanza che innesca il desiderio.
Una richiesta, quella di figli e nipoti, che deve impegnarci a riconsiderare le esigenze delle ultime generazioni mobilitando ogni potenzialità in termini di etica, cultura, progettualità, formazione degli educatori e investimento delle risorse.
In una prospettiva laica, l’unico futuro che abbiamo è rappresentato dai nostri figli.
Ascoltiamo perciò la favola del Flautista di Hamelin dove l’arroganza del capomastro provoca la sparizione di tutti i bambini.
Torneranno a rianimare la città quando gli adulti diventeranno consapevoli delle loro responsabilità.
Silvia Vegetti Finzi, psicologa e accademica italiana.